I lutti mancati
Uno degli aspetti più temibili di questa situazione estrema, è ovviamente il senso di morte che ci attanaglia e ci scarnifica.
È un senso atavico, primordiale, celato.
Mi succede anche oggi di ricevere richieste sulla possibilità di parlare coi propri figlioli della morte di un parente, come se parlarne portasse con sé traumi furibondi.
Un tabù radicato che risiede (anche) nel tentativo religioso di trasformare la morte in un passaggio estatico e privato del senso del dolore che, invece, le appartiene.
Un dolore che sottolinea la nostra impotenza, la nostra essenza più vulnerabile, la legge della separazione degli affetti, il nostro limite e la nostra fine: impotenza, fragilità, dolore, separazione e limite umano sono al contempo i cardini psichici per una buona riuscita di noi, insomma per una buona vita.
Due facce della stessa medaglia insomma.
Ma ci occorre un luogo per elaborare le perdite, e il rito funebre è sempre stato quel luogo: ora è rimosso, inaccessibile.
Creando una bolla temporale difficilissima da gestire, un non luogo dove tutto può accadere.
Allora il requiem deve diventare un cordone condiviso dove il dolore possa essere almeno in parte condiviso, facendo affiorare una celebrazione condivisa da tutti.
Il rischio è che la rabbia prenda il sopravvento, quel senso di ingiustizia inaspettato che ci terrorizza.
Non permettiamolo, e accettiamo in noi quel senso di dolore condiviso che in un modo o nell’altro ci appartiene.