L’analista al di là del setting
Ecco. Per la prima volta in assoluto nella mia vita mi approccio a una visione sociale della mia professione. Ho sempre lavorato nell’intimità del mio studio professionale, nel comodo setting psicoanalitico in un riverbero emotivo continuo ma direzionato e contestualizzato, nella continuità di un lavoro rigoroso e “al di fuori del contesto sociale” (pur essendo la psicoanalisi un esercizio di formazione individuale/sociale).
Per la prima volta esco dallo studio e mi approccio al dialogo esterno, come un bisogno impellente di dire alcune cose.
La foto del profilo è emblematica: lo psicoanalista non ha più la pipa freudiana, ha una mascherina anti batterica; la chaise longue è vuota, anzi svuotata; le mani sono sterili, vestite di guanti mono uso. Il nuovo anno zero segna e segnala un neo cristianesimo della psicoanalisi: l’analista c’è, è presente, si adopera; il paziente c’è ma è nel cellulare, nel pc, nell’aere virtuale dell’iper uranio informatico. Non l’avrei mai immaginato, né desiderato. Ma è così, per ora.
Da quando è cominciata la quarantena una congerie di sensazioni mi hanno attraversato il midollo: reattività, paura, rabbia, fanatismi, scoraggiamento, desiderio. In particolare il desiderio non è mai passato: di esserci come persona e come analista in questo frangente, al meglio delle mie piccole possibilità. Ho capito che il mio lavoro era ed è un progetto di formazione/studio/civilizzazione che non si può arrestare, perché è invisibile come un virus, ma è molto più contagioso di un virus: la relazione umana è più contagiosa, è più primordiale, è più impellente. E allora io, come terapista, avrei dovuto continuare. E ho continuato a lavorare così come nella foto, con e grazie a tutti i miei pazienti, e anche altri nuovi che si sono aggiunti nella sventura, i quali hanno accettato la trasformazione del setting, la lontananza che comunque ci avvicina. Ma non era abbastanza. Allora ho cominciato ad attivare colloqui con i medici che operano in prima linea nell’inferno del contagio, e non santo cielo per condividere eroismi, ma per sovrapporci nelle comuni paure, nell’invincibile sentiero della pavidità e del senso del limite.
Questa sera una novità: un aperitivo via Skype con amici, lui è un noto giornalista e scrittore e mi fa presente che questo è il momento del cambiamento, e che il lavoro dell’analista è più che mai sociale. Grazie Alberto, io l’avevo sempre sospettato ma in questi tempi di morte avevo dubbi. Invece è così: gli analisti devono dare un senso interpretativo a gli accadimenti; gli analisti devono garantire la tenuta psichica dei propri pazienti e di quelli a venire; gli analisti devono trasmettere messaggi. Diffido dei terapisti che offrono la prima seduta gratuita, non vendiamo merci. Diffido degli eroi ubiquitari e qualunquisti. Diffido degli analisti che scappano e aspettano che la pandemia si arresti come conigli. Cambiate lavoro, non fa per voi. Noi, analisti, abbiamo paura; ma continuiamo a esercitare il nostro lavoro, sanitario, clinico, relazionale, esistenziale.
Allora ho capito che adesso può essere il momento giusto per scrivere, ogni giorno, qui, delle cose che so, che ho imparato, e che forse possono essere utili a qualcuno. In ogni caso voglio raccontare, anzi testimoniare.
Nulla più.