Il pianto del neonato
Il neonato caratterizza la sua presenza nel mondo attraverso la modalità comunicativa del pianto e dell’imitazione. Il suo principale interesse vitale è costruire il legame con l’oggetto etologicamente atteso che riconosciamo nel ruolo materno.
Attraverso un apprendimento di impronta il nascituro entra in relazione con il primo oggetto che percepisce in movimento. La scoperta deriva principalmente da modelli animali: se a una capra viene tolto il cucciolo che ha appena partorito e glielo riconsegniamo dopo qualche ora lo rifiuta. Ma se la separazione avviene dopo mezz’ora dalla nascita e lo riconsegniamo dopo tre giorni lo accoglie affettuosamente. Il breve lasso di tempo intercorso dalla nascita dimostra che si è formato il legame che chiamiamo da impronta e si fonda principalmente sull’odorato. Per i pulcini il legame è immediato: basta una palla che rotola ma anche il ticchettio di un orologio per riconoscere l’evento “come mamma”. Così avremo pulcini che corrono dietro ad una palla o che rimangono calmi e sereni vicini al ticchettio della sveglia.
Nell’essere umano il protocollo si ripete con uno strumentario più complesso. Anche nel neonato umano l’approccio primordiale avviene nell’imprinting dell’odorato, ma sicuramente il più valido è rappresentato dall’attaccamento al seno. E’ la modalità più completa che forma, nel neonato, la base del modello operativo interno dell’attaccamento affettivo.
Perché l’attaccamento diventi affettivo deve avvenire nel rispetto di alcune regole che sono quelle relative al desiderio, alla disponibilità dell’accoglienza e al senso di protezione che il legame con la madre riesce a costruire.
Il contatto del legame è dunque “a pelle”, epidermico e olfattivo, e il sentire è un codice del linguaggio relativo al senso di protezione. Ed è il prodigio della vita, che ancora oggi rappresenta un campo della ricerca che ci appassiona: dobbiamo iniziare il nostro percorso dal postulato biologico che si nasce necessariamente carichi di dolore e con il forte sentimento di precarietà. E’ la base biologica necessaria per cercare il legame e la protezione che si traduce perciò in attaccamento affettivo, rispetto ad un’altra forma, pericolosissima, di attaccamento da noi descritto come istintivo e distruttivo.
Un sentimento distruttivo dove il neonato “rifiuta” il legame (non si attacca al capezzolo, rifiuta l’impronta del legame) percependo il piacere paradossale della distruzione del legame. Generalmente il sentimento istintivo, quando è rilevabile e presente, è il prodromo dell’autismo, della psicosi o possibile schizofrenia. Il pianto del neonato è allora un indice da considerare con la massima attenzione e valutazione.
Il pianto del neonato è il pigolio continuo del pulcino, è un segnale importante e non rappresenta “solo” la maniera di attirare l’attenzione per poter comunicare e dialogare, per l’essere umano è il risultato di un’operazione complessa.
Statisticamente la durata complessiva giornaliera del pianto è di 1 ora e ¾ nelle prime 2 settimane di vita, di 2 ore e ¼ dalla seconda alla quarta settimana di vita, di 2 ore – 2 ore e ¾ durante il secondo mese e di 1 – 2 ore dal secondo al terzo mese di vita. La durata del pianto evolve nella durata nei primi quattro mesi di vita: è il periodo strategico della formazione primordiale della personalità. Infatti Melaine Klein, la psicoanalista che per prima ha descritto tale fenomeno formativo ed evolutivo, identifica nei primi quattro mesi di vita il viraggio della posizione Schizo Paranoide (SP) in Depressiva (D). La posizione SP rappresenta lo stato di eccitamento tipico del neonato alla ricerca di contatto dalla nascita, mentre la posizione D è l’espressione che segna la maturazione nel legame stesso.
La SP è prevalentemente paragonabile alla simbiosi e contemporaneamente al rischio del rifiuto paradossale e istintivo nei confronti della madre, ma con l’evoluzione nella posizione D il legame diventa operativo e il neonato può tollerare la frustrazione: significa che il legame è saldo, si è formato e il neonato può esplorare il mondo. Il nocciolo della maturazione consiste nella tolleranza di uno stato frustrante e il pianto è direttamente collegato al lavoro necessario per plasmare l’intolleranza alla frustrazione, ciò avviene sempre e continuativamente durante la crescita del bambino. Se il neonato piange vuol dire che si trova nelle condizioni di uno stato di precarietà che lo invade e gli provoca, automaticamente, un sentimento istintivo di rabbia e allora, con l’intervento del riflesso del pianto, il bambino cerca di plasmarlo, gestirlo, controllarlo.
Il dolore esasperato crea la rabbia, e la rabbia può tradursi nella distruzione e nel rifiuto del legame, il pianto dunque rappresenta il riflesso di protezione che cerca di impedirlo. Ci sono delle caratteristiche che meritano comunque di essere prese in considerazione: per es. la tonalità del pianto, se si mantiene costante nel tempo oppure diminuisce per poi aumentare (pianto in crescendo), può essere segno di un disagio da valutare con l’ausilio di un medico, pensiamo a un focolaio infiammatorio (otite; ecc.); mentre se diminuisce o aumenta per poi diminuire (pianto in decrescendo) è indice di elaborazione e plasmazione dello stato di rabbia, virando verso un modello che potremmo indicare con “il farsene una ragione”.
Generalmente, verso i due-tre mesi, si associa a intensa salivazione (una sorta di mericismo o ruminazione) che è collegata sul piano simbolico alla formazione del pensiero: ciò contraddistingue il processo elaborativo nei confronti dell’ambiente. In termini tecnici il pianto nei primi quattro mesi è il risultato delle soglie del tronco cerebrale che intervengono per impedire l’evoluzione emozionale in rabbia o piacere paradossale distruttivo; perciò il pianto è un riflesso neurologico necessario alla plasmazione della rabbia. Ecco perchè i genitori debbono sempre intervenire con la consolazione per rafforzare la funzione di plasmazione del piacere paradossale della rabbia e dell’intolleranza.
E’ stato notato che il pianto che comunica la rabbia scatenata dalla fame si caratterizza da pause di breve durata: giusto il tempo di riprendere fiato (vista l’intensità dell’ira che la privazione del cibo provoca: il piacere del cibo è fondamentale per la sopravvivenza nel mondo animale).
A questo punto il pianto evita che si possa approdare al piacere paradossale del rifiuto del cibo; come esempio si può proporre la modalità del bambino anoressico che quando ha fame non piange, perché “gode” della mancanza del cibo.
Se il genitore dovesse riscontrare che di fronte allo stimolo doloroso della fame il neonato non piange, si troverebbe innanzi ad un indicatore da valutare attentamente sul piano della propensione alla rabbia che rimane persistente e può diventare la condizione stabile dell’esistenza.
Il buon bebé che lo trovi sempre dove lo hai lasciato, molte volte rappresenta un neonato immobile, taciturno, per taluni è l’ideale da perseguire dal punto di vista pedagogico. Il buon bebé appare tranquillo ma interiormente è probabile che rimugini, rosichi e stia fantasticando scenari vendicativi talvolta anche allucinatori e del tutto personali che lo mantengono immobile e attonito.
Il pianto dunque deve essere considerato espressione della vivacità comunicativa del neonato e del bambino, e l’opportunità di conoscere il livello della soglia di tolleranza della frustrazione dello stesso. Il pianto comunica un percorso del disagio che inizialmente doloroso travalica nella rabbia e si attiva come segnale di pericolo o sintomo psicosomatico.
La ricerca della fonte del disagio (Ha fame? Il latte è insufficiente? C’è un’infezione?, ecc.) è l’operazione sempre necessaria e contemporaneamente però il care giver deve offrire al neonato la consolazione immediata: non è vero che il pianto potenzia i polmoni, il pianto è necessario perché ha sempre una funzione consolatoria interiore e si deve intervenire perché possa durare il meno tempo possibile.
Solo così si conserva la sua efficacia comunicativa, ad ogni età in cui venga proposto. Un pianto prolungato può provocare il deterioramento della funzione consolatoria e risolversi nella permanenza della rabbia.
Nel bambino la facile induzione al pianto rappresenta la tempestiva necessità di controllo interiore: è un segnale di forte valenza premonitrice della difficoltà esistenziale a fronteggiare la realtà. Viene proposto infine come modello esplicativo il pianto rituale, processo che, di fronte alla morte, è stato per l’umanità un momento istituzionale di grande consapevolezza perché biologicamente necessario per la plasmazione della rabbia di fronte alla perdita: ciò consente alla coscienza di intervenire in aiuto del farsene una ragione e rimanere nella storicità dell’evento che passa, all’interno dunque della cornice esistenziale che racconta la storia dell’individuo.