La madre
È passata la festa della mamma, esula dalla quarantena ma si amplifica nel vissuto quotidiano del femminile che, in questo periodo più che mai, si ritrova a svolgere ruoli multilivellari: madre, maestra, moglie, figlia, cuoca, donna delle pulizie e quant’altro.
Ma, al di là del dibattito sull’identità di genere e sulla fatica che il femminile ancor oggi, da retaggi antichi “antropologicamente” sanciti, compie per individuarsi (dibattito che meriterebbe comunque di essere svolto), ci concentriamo un attimo sul maternage.
Il materno è un luogo carico di insidie.
In primis perché è il luogo della reverie, il fulcro del legame affettivo, con tutte le difficoltà del caso.
È il luogo della creazione, dell’origine; dunque per legge di natura della distruzione e della fine.
Abbiamo sempre immaginato che un sano istinto materno avrebbe sospinto qualunque razza di madre, inclusa quella umana, verso la protezione assoluta nei riguardi della prole.
Oggi sappiamo che invece l’istinto materno si risolve in una sorta di gestione della prole ai fini di un controllo territoriale sull’esistenziale: il figlio diventa così il marchio di un potere o il patentino di un salto di qualità del tutto immaginario.
Medea docet: l’amore per il figliolo non è incondizionato, piuttosto è condizionato dalla storia personale. E può diventare fatale.
La madre è una donna, il materno la massima espressione del femminile: potenza generativa, che si realizza al di là del mettere al mondo un figlio.
Per raggiungere tale potenza creativa la natura esige un lavoro di formazione non istintuale, tantomeno innato.
Piuttosto un generoso lavoro su di sé in qualità prima di figlia, poi di donna e infine di madre, un archetipo o tappa miliare del mentale che il maestro Jung ipotizzò quale fondamentale punto di crescita e di passaggio nella formazione dell’animo umano: passare dal ruolo di figlia al ruolo di madre esige un lavoro che non può essere sintetizzato nel momento della procreazione, ha bisogno di tempo e di impegno, e si rivolge al proprio interno ben prima di rivolgersi al bisogno dell’infante.
In sintesi essere madre significherebbe essere madri di se stessi, e non è affatto semplice.
L’abbraccio materno è il più glorioso luogo di formazione e di protezione, quanto il luogo più asfittico e claustrofobico che esista.
Winnicott ipotizzava il raggiungimento di una meta: la madre sufficientemente buona. Che sia quindi ben consapevole del proprio limite umano e della propria nevrosi.
Con altre caratteristiche questo dibattito può essere trasferito sul paterno.
In ogni caso, ritengo che questo livello di consapevolezza e di livellamento dell’idea del materno sia il modo migliore per augurare a ogni mamma una buona festività e la forza di tenere duro in questo periodo così costrittivo.
Magari talvolta lasciandosi andare ad istinti più grossolani, limiti e meno fronzoli: ricordandosi, quando si guarda allo specchio, che lì di fronte c’è una donna che innanzitutto richiede un riconoscimento pieno della propria femminilità e della propria fragilità.
Una madre che spesso ha ancora bisogno della propria mamma.